A cura di Niccolò Poli – Studio Dusilaw Legal&Tax
La Suprema Corte torna in tema di nesso di causalità e responsabilità omissiva della struttura sanitaria.
Se manca l’identificazione della condotta esigibile in capo alla struttura sanitaria non è sufficiente la prova del nesso omissione-danno per l’imputazione di responsabilità (Cassazione 25288/2020).
La vicenda prende le mosse da un ricovero presso una struttura ospedaliera di paziente psichiatrica in stato di gravidanza, la quale, durante il medesimo, seppur sottoposta ad attenta vigilanza nonché a presidi di contenimento (quali fasce a fibre acriliche finalizzate a bloccare mani, piedi e busto, chiuse con bottoni speciali a calamita), con un movimento definito repentino, si autolesionava l’occhio sinistro comportandone la perdita.[userpro_private restrict_to_roles=administrator,subscriber,author max_width=100% margin_top=50px]
Agiva per il risarcimento del danno la paziente che, dichiarata soccombente in primo grado, otteneva sentenza favorevole dalla Corte d’Appello di Catanzaro avverso la quale proponevano ricorso in Cassazione il medico e la struttura.
La Suprema Corte, dopo aver enunciato le principali obbligazioni in capo alla Struttura Sanitaria all’atto del ricovero (“apprestare al paziente le cure richieste dalla sua condizione; assicurare la protezione delle persone di menomata o mancante autotutela, per le quali detta protezione costituisce la parte essenziale della cura”) si concentra sulla distribuzione dell’onere probatorio tra paziente- danneggiato e Struttura Sanitaria confermando come il “paziente debba provare solo l’avvenuto inserimento nella struttura e che il danno si sia verificato durante il tempo del ricovero, mentre spetta alla controparte dimostrare di avere adempiuto la propria prestazione con la diligenza idonea ad impedire il fatto”.
Pertanto, per costante giurisprudenza, “l’avverarsi stesso dell’evento costituisce in tesi prova dell’esistenza del nesso di causa tra la condotta omissiva ed il danno, potendo la struttura sanitaria esonerarsi da responsabilità dimostrando di avere tenuto una condotta diligente consistita (nel caso di specie) in una adeguata sorveglianza del degente”.
A detta degli Ermellini pertanto, la Corte d’Appello, pur avendo correttamente inquadrato i rispettivi oneri probatori e pur avendo correttamente ritenuto raggiunta la prova del danno e del suo nesso di causalità materiale da parte della paziente danneggiata non si è tuttavia interrogata correttamente su quale sarebbe dovuta essere la condotta (alternativa rispetto a quella posta in essere) che avrebbe dovuto tenere la struttura sanitaria per impedire il danno atteso il carattere “repentino ” del gesto compiuto dalla donna.
Tale elemento (la repentinità del gesto) rileva al fine di verificare se ricorre quella causa imprevedibile ed inevitabile che ha reso impossibile la prestazione e quindi la non esigibilità di un comportamento diverso da quello tenuto dalla struttura (pertanto quale fattore esonerativo della responsabilità).
La Suprema Corte ha ritenuto non chiarito e provato tale aspetto e pertanto ha cassato la sentenza rinviando alla medesima Corte in diversa composizione al fine di verificare la sussistenza o meno anche di tale fattore determinante.
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